Le 11 vittime

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Mario Becucci (classe 1906), Antonio Brancati (1920), Rino Ciattini (1924), Alfiero Grazi (1925), Silvano Guidoni (1924), Corrado Matteini (1920), Emanuele Matteini (1924), Alcide Mignarri (1924), Alvaro Minucci (1924), Alfonzo Passannanti (1922), Attilio Sforzi (1925): sono i nomi degli undici giovani che pagarono con la vita il loro rifiuto di imbracciare le armi per l’esercito della R.S.I. Si trattava di cinque studenti, tre operai, un maestro, un commerciante e  un decoratore, classificabili rispetto ai loro obblighi militari come cinque renitenti alla leva, quattro sbandati, due militesenti (di cui uno perseguitato politico). Con loro vi era anche un disertore della Wehrmacht, Günter Frichugsdorf, noto a tutti come “Gino”. Fu l’unico che riuscì a salvarsi perché nel corso del rastrellamento, forse perché già presagiva le terribili conseguenze per il suo atto di disobbedienza, riuscì a fuggire dalla capanna e nascondersi nel bosco. Si ripresentò la sera del 23 marzo al podere “Lavacchio”, dove fu aiutato dalle famiglie del posto a vivere in clandestinità. Dai documenti risulta che abbia preso parte alla guerra di Liberazione nelle file della banda di Monte Bottigli. In seguito per un periodo fu assistito e seguito come un figlio dalla famiglia Grazi di Cinigiano, ricambiando tanto affetto, da pittore qual era, con la decorazione della cappella dove riposa Alfiero Grazi, nel cimitero del paese. Il più “anziano” del gruppo era il più convinto antifascista, Mario Becucci, decoratore originario di La Spezia, convinto repubblicano. In seguito all’armistizio era sfollato a Cinigiano, dove condusse una fervida attività per convincere i giovani di leva a non rispondere alla chiamata alle armi. Dopo aver contestato una orazione di propaganda presso la casa del fascio, fu denunciato al Tribunale speciale per disfattismo politico e propaganda sovversiva. Ormai perseguitato politico, Becucci scappò a Istia dal cugino, prima di unirsi ai “ragazzi”, così ricordati nella memoria popolare. Tra di loro vi erano anche due soldati sbandati meridionali del R. Esercito, Alfonzo Passannanti e Antonio Brancati. Di quest’ultimo si conserva la struggente lettera scritta ai genitori  prima della fucilazione, un testamento spirituale in cui ribadiva la nobiltà della sua scelta: « […] Vi giuro di non aver commesso nessuna colpa se non quella di aver voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile e martoriata Patria. Voi potete dire questo sempre a voce alta dinnanzi a tutti. Se muoio, muoio innocente […]”. Vari erano i motivi che spinsero i chiamati alla leva alla renitenza e gli sbandati a non presentarsi: il rifiuto della guerra, la speranza nella liberazione da parte degli Alleati, la paura della deportazione in Germania, l’antifascismo più (Becucci, Brancati, Corrado Matteini) o meno consapevole (ragazzi del 1924-’25, che non avevano mai prestato servizio nell’esercito), la forte influenza della volontà dei familiari d’idealità antifasciste, nonché la volontà di vivere in pace gli anni più belli della propria giovinezza.

La strage di Maiano Lavacchio colpisce particolarmente perché i “ragazzi” non erano partigiani combattenti. In merito ai loro rapporti con le bande, alcuni testimoni ricordavano che ebbero contatti con Angiolo Rossi e Pietro Verdi del Comitato militare, infruttuosi per il passaggio alla lotta armata. Possiamo credere che gli organizzatori partigiani avessero provato a trascinarli dalla loro parte, ma la volontà iniziale dei ragazzi era di starsene nascosti ed in pace, confidando nell’imminente fine della guerra. Più difficile capire che scelte avrebbero preso in prossimità della Liberazione, quando il movimento partigiano si rafforzò numericamente ed incrementò le proprie azioni ed il consenso di base. I giovani, uniti da vincoli di parentela o amicizia, furono protetti da una rete di solidarietà costituita dalle famiglie rurali della zona. Decisero di rimanere uniti per confortarsi a vicenda in questo delicato periodo, che li costrinse a fare una scelta.

Luogo centrale della vicenda fu Maiano Lavacchio, una frazione collinare del Comune di Magliano in Toscana, contraddistinta da numerosi poderi e in parte coperta dalla macchia di Monte Bottigli. Un’area, all’epoca piuttosto isolata, perfetta come nascondiglio per i renitenti e disertori, che potevano contare sull’ospitalità contadina per il sostentamento. Il mondo rurale ebbe un ruolo fondamentale non solo per la protezione e l’assistenza fornita ai renitenti, agli sbandati, ai disertori e agli ex-prigionieri alleati, ma anche come “retrovia” del movimento partigiano, garantendo rifornimenti, servizi d’informazione e anche uomini disposti a combattere. Vani furono i tentativi del Capo della Provincia Ercolani di rompere questo connubio ormai inscindibile; le minacce o le promesse di ricompense per la denuncia dei “ribelli” non sortirono effetti tra le famiglie contadine, ferme nella propria scelta.