La strage dei martiri d'Istia

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Maiano Lavacchio, 22 marzo 1944: 11 giovani, renitenti alla leva, sbandati, perseguitati politici e disertori, datisi alla macchia per non combattere nella guerra fascista al servizio del ricostituito esercito della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), furono rastrellati e fucilati dopo un processo sommario, condotto dalle massime autorità fasciste locali. E’ la storia dei “martiri d’Istia” – dal nome del paese di provenienza della maggior parte dei giovani – un esempio di resistenza civile e passiva, di strage prettamente fascista e di “guerra totale”, nell’Italia ancora controllata dal fascismo repubblicano asservito all’occupante tedesco.


Porto d'armi di Attilio Sforzi. E' visibile il foro di una delle pallottole che lo uccise (Archivio privato della famiglia Sforzi)A Maiano Lavacchio la situazione fu piuttosto tranquilla fino al febbraio 1944, quando il decreto di Mussolini già citato e i bandi fascisti sempre più duri, che prevedevano la pena di morte per le famiglie che ospitavano prigionieri di guerra, renitenti e disertori, convinsero gli 11 giovani a trasferirsi tra gli “scopi” di Monte Bottigli. Qui costruirono due capanne tra gli inviti alla prudenza degli adulti, preoccupati per i rischi che tale scelta avrebbe provocato. La decisione di darsi pacificamente alla macchia comportò privazioni e pericoli: i fascisti consideravano tutti gli imboscati come partigiani e nel mese di marzo intensificarono le operazioni di rastrellamento. I giovani, inoltre, si mossero spesso dal loro rifugio verso Istia e i poderi, un’imprudenza che destò sospetti e fughe di notizie. Il rastrellamento di Monte Bottigli fu organizzato dal Capo della Provincia Ercolani, in collaborazione col federale Silio Monti  ed il vice-questore Liberale Scotti.

L’incarico di svolgere indagini sui renitenti della zona fu affidato al catanese Lucio Raciti, un agente di P.S. in stretto rapporto con lo Scotti, che al contempo svolgeva il ruolo di spia al soldo delle autorità fasciste. I documenti conservati all’Archivio di Stato di Grosseto dimostrano come Raciti avesse già svolto lo “sporco” compito d’infiltrarsi nelle formazioni partigiane per ricavare importanti informazioni ai fini dei rastrellamenti, ricevendone notevoli benefici economici. La mattina del 19 marzo, la sua visita in avanscoperta al podere degli “Ariosti” nelle false vesti di un reduce di Russia in cerca di ospitalità, ebbe proprio lo scopo di ottenere le notizie utili per la spedizione nazi-fascista. Il rastrellamento fu condotto nella notte tra il 21 e il 22 marzo da militi della G.N.R., un nucleo di P. S. e alcuni Carabinieri, un reparto tedesco (Feldgendarmerie) e la squadra d’azione “Ettore Muti”: in totale circa 140 uomini. I comandanti erano il cap. Michele De Anna, a capo della squadra d’azione “E. Muti”, il commissario prefettizio di Grosseto Inigo Pucini, il federale Silio Monti, il ten. Vittorio Ciabatti della G.N.R., il commissario di P. S. Sebastiano Scalone ed il sottotenente tedesco Müller. Dopo aver costretto con la violenza due renitenti sardi ospitati all’ “Ariosti” a fare da guida, la colonna raggiunse le capanne di Monte Bottigli alle sei del mattino. I giovani, sorpresi nel sonno, non opposero resistenza, furono spogliati dei loro averi, pesantemente picchiati e condotti in due colonne al podere “Appalto” di Maiano Lavacchio, luogo di ritrovo dei paesani con la scuola, la sala da ballo e il negozio di generi alimentari. Proprio all’interno della scuola si svolse la farsa del processo, condotto interamente dai fascisti, poiché i tedeschi si erano già dileguati. Ai “ragazzi” non fu concessa nessuna possibilità di difesa. Vani furono anche i tentativi di muovere a pietà i rastrellatori da parte dei primi parenti, accorsi sul posto dopo la diffusione della notizia. Dora Matteini, madre di Emanuele e Corrado, fu offesa e violentemente allontanata, senza neanche la possibilità di un ultimo abbraccio ai suoi figli. L’ultimo saluto “Mamma, Lele e Corrado un bacio”, fu impresso nella lavagna della scuola, oggi conservata nella stanza del sindaco del Comune di Grosseto. Dopo un’ultima preghiera, i “ragazzi” furono portati davanti al plotone d’esecuzione, comandato da Inigo Pucini.La lavagna con l'ultimo bacio alla madre dei fratelli Matteini

I corpi straziati furono lasciati sul posto, mentre le colonna fascista ripartì solo dopo aver razziato tutti i poderi della zona ed essersi macchiata di altre violenze. La sepoltura fu possibile solamente per l’interessamento e il coraggio del parroco di Istia, Don Mugnaini. Quattro giorni dopo Ercolani espresse tutto il suo compiacimento per l’azione svolta, proponendo ricompense per gli esecutori.

Le prime indagini sulla strage di Maiano Lavacchio furono compiute dal C.P.L.N. nel giugno 1944. Due anni dopo la Sezione speciale di Corte d’assise avviò il “processone” ai fascisti repubblicani della provincia, così ribattezzato per la rilevanza dei fatti implicati, l’interesse generale suscitato e l’alto numero di imputati (59) e testimoni. Tutti i parenti delle vittime si costituirono parte civile, lamentando sempre la mancata assicurazione alla giustizia di tutti i responsabili della strage. L’accusa più grave mossa agli imputati fu quella di collaborazionismo col tedesco invasore, mediante i rastrellamenti e le rappresaglie. Per il rastrellamento di Monte Bottigli la Corte smontò la tesi difensiva degli imputati che sostenevano l’esclusiva responsabilità tedesca e si rifiutò di trattare il caso come semplice forma di collaborazionismo politico e non militare, trattandosi di renitenti e sbandati e non partigiani, perché “l’azione aveva la finalità di assicurare mediante il terrore di sanguinose repressioni un maggiore afflusso di militari a quell’esercito repubblicano voluto dai tedeschi a sostegno della loro azione contro gli alleati e l’esercito del governo legale”. Il 18 dicembre 1946 fu emessa la sentenza: la Sezione speciale della Corte d’assise di Grosseto comminò otto condanne a morte, mai applicate, due a 30 anni di reclusione e12 a pene minori (di cui sei interamente condonate), di fronte a ben 37 assoluzioni. Successivamente, gran parte delle pene furono derubricate, condonate o amnistiate, anche alla luce del D.P.  22 giugno 1946 (meglio noto come “Amnistia Togliatti”) che, per le esigenze di pacificazione del Paese, portò all’archiviazione di molti processi e alla liberazione di migliaia di fascisti, tra lo sconcerto e il risentimento dell’opinione pubblica. La sete di giustizia dei familiari delle vittime di Maiano Lavacchio non fu mai placata.